Dopo una campagna pubblicitaria lunga e battente, finalmente è in onda su Netflix la serie TV “Il Gattopardo”. Dopo qualche sequenza, purtroppo già ci si rende conto che si tratta di un prodotto commerciale che non riesce a creare l’atmosfera ottocentesca della Palermo borbonica e che rimane molto lontano dal capolavoro letterario di Tomasi di Lampedusa e dalla sublime pellicola di Visconti.

Il ritmo e i dialoghi mi dànno la sensazione di una telenovela. Tutta la poesia, la profondità, l’ambiguità sicula espressa dal magnifico romanzo di Tomasi di Lampedusa è calpestata da una regia britannica che mostra una profonda sciatteria, tipica delle narrazioni inglesi quando raccontano la storia italica. Addirittura, anche la famosa frase di Tancredi, la chiave di lettura di questa storia, «Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi», sembra scadere in un intercalare di una chiacchiera da bar.

La grandezza riflessiva e pragmatica del principe di Salina di Visconti, personaggio misterioso dalla sapienza disillusa e stratificata nei secoli di nobiltà del suo casato, è stata declassata nella prepotenza di un boss dalla voce roca stile don Vito Corleone. Kim Rossi Stuart, alto e smilzo, è anche molto differente fisicamente dal principe di Salina lampedusano, uomo massiccio e corpulento in cui scorre sangue germanico. Gli altri attori sembrano appena usciti da un set di una mediocre fiction TV contemporanea e capitati per caso nella Sicilia di metà Ottocento, usando dialoghi e movenze fuori contesto.

Il regista avrebbe fatto cosa buona a farsi supportare da un consulente storico, perché gli strafalcioni in questa serie TV sono gravi e numerosi, da fare rabbrividire. Ad esempio, l’uso di un carnet di assegni (esisteva?) per corrompere il governatore, oppure, appunto, chiamare governatore il Luogotenente del Re in Sicilia (capo politico e militare del territorio autonomo della Sicilia), che all’epoca era il principe Fabrizio Ruffo di Castelcicala, non siciliano, ma flemmatico napoletano poliglotta e veterano dell’esercito imperiale britannico, il quale, dopo la venuta di Garibaldi non cambiò casacca, ma si ritirò prima a Napoli e poi a Parigi, rimanendo fedele ai Borbone. Altro malizioso errore storico è stato quello di mettere un ragazzino tra i fucilati della rivolta della Gancia per indurre gli spettatori alla commozione e al biasimo dei Borbone, ma le fonti rivoluzionarie stesse smentiscono questo particolare: il più giovane tra i fucilati fu il calcararo Michele Fanara di anni 22.

Dopo aver seguito la serie TV di Netflix sento l’imperioso bisogno di purificarmi, rileggendo il magistrale scritto di Giuseppe Tomasi di Lampedusa e rivedendo l’opera d’arte cinematografica e sontuosa di Luchino Visconti, allo stesso modo di quando, dopo un pessimo pasto, sento la necessità di un caffè forte e corposo che cancelli il pessimo sapore rimasto in bocca.

Domenico AnforaPubblicità