Tanti uomini si ritrovano in uniforme e con un’arma in pugno senza odiare nessuno e privi della volontà di uccidere. Cosa faranno quando si ritroveranno il nemico armato di fronte?

Sicilia, 10 luglio 1943, D-day. In contrada Maccari di Noto sono lanciati erroneamente dei paracadutisti americani. La costa è presidiata dal 374° btg costiero e da una compagnia mitraglieri del Regio Esercito. Alle 4 del mattino lo studente Capodicasa sente uno sparo, si alza dal letto e, contro il parere del padre, esce per vedere cosa è successo. L’autore Alfio Scuderi ci ha raccontato nel suo libro la tragica scena:

…vide un soldato italiano che in ginocchio piangeva ai piedi di un albero e pur non comprendendo quanto diceva, notava che s’inchinava come se avesse avuto davanti qualcosa di soprannaturale, il poverino non si dava pace perché aveva ucciso, stando in agguato, un paracadutista solitario rimasto impigliato ad un albero e che si vedeva ancora pensolare a pochi centimetri da terra. Il nostro fante ancora costernato e commosso ripeteva: «M’implorava “buono italiano, buono italiano”; io mi sono avvicinato col fucile spianato e col dito sul grilletto e m’è partito un colpo senza volerlo, mio Dio!». Non si dava pace perché aveva ucciso per la prima volta e si sentiva vigliacco per averlo fatto mentre l’avversario non aveva potuto difendersi. «Che vergogna, perdonami mio Dio», tornava a dire quel nostro buon ragazzo. Anche lo studente cercò ancora di rinfrancarlo e quando più tardi giunsero i compagni del fante avvenne un litigio animato ed alcuni vennero alle mani proprio davanti al caduto perché parecchi di loro non volevano indossare abiti civili per fuggire e gridavano a gran voce che avevano giurato fedeltà al re! Ma i più tirarono i meno ed accordatisi andarono via tutti insieme da borghesi, lasciando appeso e dondolante l’invasore sfortunato.[1]

Caltagirone, 15 luglio 1943. È da poco finita la battaglia per l’aeroporto 504 di S. Pietro e molti corpi dei caduti sono ancora sparsi sul campo. Alcuni di questi sono allineati. I soldati americani del 180° reggimento fanteria, infuriati per la dura resistenza italo-tedesca durata cinque giorni, hanno fucilato 7 civili a Borgo Ventimiglia, 36 prigionieri italiani in aeroporto, 38 prigionieri italo-tedeschi sulla strada per Acate, presso il torrente Ficuzza, 8 prigionieri italiani alle porte di Caltagirone. Alcuni militari americani sono inorriditi e nauseati, e ne parlano col cappellano militare.  Il tenente colonnello William E. King, cappellano militare, è apparso il 16 Luglio 1943 davanti al colonnello William O. Perry, ispettore generale presso la 45a divisione di fanteria e ha testimoniato quanto segue:

Il 15 Luglio del 1943, circa alle 10,30, stavo transitando in macchina lungo la strada da Biscari verso l’aeroporto di Biscari. Ho visto un gruppo di corpi giacenti a circa 40 o 50 piedi dalla strada, in un piccolo uliveto. Ho chiesto all’autista di fermarsi e andai ad investigare, pensando fossero dei cadaveri trasferiti in quel luogo per essere sepolti. Ho contato 36 cadaveri che giacevano sulla strada, 34 dei quali erano italiani e due tedeschi. L’autista mi fece notare un altro cadavere italiano che giaceva a circa 60 piedi di distanza dagli altri al di sotto della collina. La prima cosa che notai era il fatto che tutti i cadaveri erano privi di scarpe e camicie. Poi notai che tutti erano stati sparati al cuore. […] Quando io arrivai presso l’aeroporto di Biscari, alle 11,30 circa del 15 luglio 1943, un agente di polizia militare mi chiamò per informarmi che c’era un gruppo di uomini morti lì vicino ed egli voleva sapere chi li avrebbe seppelliti. Io gli domandai se i corpi erano stati trovati sparsi così o se erano stati raggruppati. Egli mi rispose che erano tutti in fila e sembrava che fossero stati falciati sul posto. […] Circa alle ore 13,00 del 15 luglio 1943, mentre guidavo verso il posto di comando del 2° btg / 180° rtg ftr, al su menzionato punto (due miglia a sud di Caltagirone), io osservai una fila di corpi distesi appena fuori la strada principale, in un vicolo che si apriva sulla strada principale. […] Io mi diressi verso il fronte e impiegai circa due ore nei posti di comando e con alcuni uomini nelle trincee. Nel frattempo, là alcuni degli uomini lasciarono il loro lavoro e vennero da me per esporre una dura protesta contro il trattamento dei prigionieri che loro avevano osservato. Essi dichiararono che non sarebbero andati in combattimento se fosse continuato il brutale trattamento di fucilare degli uomini con le mani alzate e che stavano provando ad arrendersi, o se fossero continuate le esecuzioni che si stavano eseguendo nelle retrovie. Essi dichiararono che erano venuti in guerra per combattere questa sorta di cose, e che provavano vergogna dei loro compatrioti che stavano facendo quelle cose. […][2]

Cefalonia, 24 settembre 1943. La 33a divisione di fanteria «Acqui» si è arresa due giorni prima alle truppe tedesche del maggiore Harald von Hirschfeld dopo otto giorni di cruenti combattimenti. Iniziano le fucilazioni degli ufficiali italiani, considerati ribelli. A don Romualdo Formato, cappellano militare del 33° artiglieria, è ordinato di salire sulle autocarrette insieme agli altri ufficiali del reggimento. Una sentinella tedesca, visti la veste di sacerdote e il bracciale della croce rossa, vuole impedire a don Formato di salire a bordo, ma un ufficiale tedesco, urlando, ordina di farlo salire. Così scrisse il cappellano anni dopo:

Io personalmente quanto bramerei incontrare nella vita quella brava sentinella che, con suo personale pericolo, tentò di non farmi salire sull’autocarretta che ci doveva condurre alla casetta rossa. Povero e caro fratello mio! Tu, poverino, tentasti un salvataggio in extremis, che non riuscì per malvagità altrui, non per indolenza tua. Ma fu Iddio che dispose ogni cosa, ammirabilmente, sapientemente! Nel cortile della morte doveva pur esserci un sacerdote che assistesse tutti quei poveri innocenti e li avviasse ai divini sentieri della speranza! Quanto cordialmente ti abbraccerei, o mio buon fratello, e con quanto slancio vorrei esprimerti la mia illimitata gratitudine![3]

Ala, Trentino, 27 aprile 1945, due giorni prima della firma della resa delle truppe tedesche in Italia. Un centinaio di soldati tedeschi, guidati da un manipolo di SS, si dirigono verso il Brennero, cercando di sfuggire alle truppe anglo-americane che hanno sfondato la linea Gotica. Hanno con loro un ostaggio, don Domenico Mercante, parroco del paese di Giazza, nel veronese. È stato aggregato al gruppo anche il caporal maggiore delle SS Leonhard Dallasega, nato nel 1913 a Proves in provincia di Trento. Veterano d’Etiopia col Regio Esercito, dopo aver optato per la cittadinanza germanica, nel 1943 è richiamato alle armi e destinato al comando SS di Caldiero, nel veronese. Con lo sfondamento del fronte, Leonhard fugge verso casa con la bicicletta di servizio, ma è fermato e aggregato dal gruppo di tedeschi a Giazza. Giunti in Trentino, nel paese di Ala, il capitano che comanda la colonna tedesca forma un plotone d’esecuzione e ordina la fucilazione del sacerdote. Leonhard Dallasega si rifiuta, dichiarandosi cattolico e definendo quella fucilazione un assassinio di un innocente. Prima viene ucciso il sacerdote, poi Leonhard, che inutilmente grida di avere moglie e quattro figli. Nel 1959, il 16 agosto, a Passo Pertica, il Vescovo di Verona, Monsignor Giuseppe Carraro, benedice un pilastro marmoreo dedicato alla memoria di don Mercante e a quella dell’ignoto soldato germanico. Sono presenti personalità italiane e tedesche. L’avvocato Nerino Benedetti, presidente del Comitato per le Onoranze, tiene il discorso commemorativo che conclude con queste parole:

L’esile figura del sacerdote di Cristo, che per amore portato alle anime a lui affidate ha incontrato la morte, e l’immagine del fiero soldato tedesco, che senza batter ciglio e a testa alta ha affrontato il mitra spianato contro di sé per un supremo dovere di coscienza e di umana fratellanza, sono oggi unite nel nostro ricordo commosso, nella nostra gratitudine, nel nostro impegno solenne di essere meritevoli del loro sacrificio e del loro esempio… Vestivano la diversa divisa di due eserciti tanto fra loro dissimili, ma i loro cuori battevano i palpiti di una medesima fede. A loro sia gloria eterna!.[4]

[1] Scuderi A., 38 giorni di guerra in Sicilia, Tipografia M. Danesi, Roma 1974, p. 65.

[2] Dall’interrogatorio al cappellano militare William E. King eseguito dal ten. col. William O. Perry, ispettore generale della 45a divisione fanteria.

[3] Formato R., L’eccidio di Cefalonia – Settembre 1943: lo sterminio della divisione Acqui, Mursia Editore, Milano 2017, p. 196.

[4] http://www.televignole.it/non-ammazzo-un-innocente/Pubblicità