Netflix ha proposto al suo pubblico la serie TV “Il gattopardo”, trasposizione in prospettiva moderna del capolavoro letterario di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Un adattamento con sguardo contemporaneo che, a mio parere, snatura completamente la narrazione di Tomasi e rende fuori contesto il suo personaggio e avo don Fabrizio Corbera. Infatti, questo aristocratico, con la sua filosofia e la sua nobile disillusione, non può che essere collocato in quel preciso periodo storico, al crepuscolo del Regno borbonico delle Due Sicilie, quando la sua decadente casta stava perdendo potere di fronte all’aggressiva scalata sociale dei borghesi, proprietari terrieri e funzionari dello Stato, verso i quali stavano confluendo capitali e cariche. Classe borghese siciliana perfettamente rappresentata dal ricchissimo strozzino don Calogero Sedara.

Tra le carenze di questa serie TV fin troppo commerciale e piegata ai gusti di un pubblico che ama le telenovelas, la più grave è la mancanza dei quattro dialoghi che costituiscono la spina dorsale della struttura narrativa del romanzo, splendidamente rappresentati sul set nel film di Luchino Visconti. Sono proprio questi dialoghi che esprimono al lettore/spettatore non solo la chiave di lettura dell’intera narrazione, ma anche le riflessioni del protagonista e quindi la sua analisi introspettiva.

Il primo dialogo è quello tra il principe e il nipote Tancredi, considerato come un figlio, il figlio preferito. Tancredi, nonostante i suoi 21 anni, ha capito molto prima e meglio dello zio che bisogna piegarsi ai nuovi tempi, mimetizzarsi come il camaleonte, e dice la frase più famosa del romanzo: «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi». È la sintesi del trasformismo, metodo che caratterizzerà da lì a poco la politica del neo costituito Regno d’Italia.

Il secondo dialogo è quello nato durante una battuta di caccia con don Ciccio Tumeo. Si tratta di un uomo di dignitosa povertà, retto e onesto, legato al vecchio modo, che disprezza i nuovi potenti come don Calogero. A Donnafugata si era tenuto il plebiscito, paravento giuridico/elettorale per giustificare l’annessione delle Due Sicilie al Piemonte savoiardo. Il risultato è stato di 512 SI e zero NO, così don Ciccio scopre che il suo voto contrario è stato inghiottito, masticato e cacato via da «quei porci del municipio». Il dialogo mette in risalto che la rivoluzione ha cambiato solo la facciata delle cose e non la sostanza.

Il terzo dialogo è con l’inviato del governo di Torino, il cavaliere Aimone Chevalley di Monterzuolo. Funzionario onesto e scrupoloso, porta al principe la proposta del governo piemontese della nomina a senatore, e rimane profondamente deluso del rifiuto di don Fabrizio. Il dialogo è molto complesso e il principe espone molti pensieri sui tempi, sul carattere del popolo siciliano, sulla sua classe sociale, sulle prospettive del nuovo Regno ecc. Ma i due concetti essenziali penso siano due: un Piemonte che non porta nel bagaglio molti regali per la Sicilia e una necessità del principe di rifiutare la nomina perché «rappresentante della vecchia classe, inevitabilmente compromesso col regime borbonico, ed a questo legato dai vincoli della decenza in mancanza di quelli dell’affetto». Chevalley è sconfortato perché «se gli uomini onesti si ritirano la strada rimarrà libera alla gente senza scrupolo e senza prospettive, ai Sedàra; e tutto sarà di nuovo come prima per altri secoli». Per il territorio dell’ex Regno delle Due Sicilie l’annessione portò a un disastro socio-economico che ancora paga oggi.

L’ultimo dialogo si sviluppò durante il ballo nel Palazzo Ponteleone col colonnello Emilio Pallavicino marchese di Priola, ardito ufficiale dei bersaglieri, veterano di tutte le campagne risorgimentali, valoroso e contemporaneamente crudele privo di scrupoli, tanto da condurre i suoi soldati alla repressione della rivolta di Genova, lui che era genovese. Aveva fermato la marcia su Roma di Garibaldi, e ne era insieme fiero e addolorato. Deluso dal macabro spettacolo che vedeva nelle campagne meridionali, dove reprimeva con estrema durezza l’insorgenza, Pallavicino così concluse: « Non è un bello spettacolo. Mai siamo stati tanto disuniti come da quando siamo riuniti». Dinanzi a quelle prospetti inquietanti, don Fabrizio «sentì stringersi il cuore».

Come rinunciare a questi quattro dialoghi senza impoverire fatalmente il romanzo?

1° aprile 2025

Domenico Anfora

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