I sentimenti più forti che un essere umano prova in guerra sono il terrore della morte e l’orrore di ciò che vede. In questo articolo approfondisco la paura, quella che attanaglia lo stomaco e fa scoppiare la testa quando ci si trova in un campo di battaglia o sotto un bombardamento. Queste righe, come un qualsiasi libro o un film, non possono descrivere compiutamente l’orrore della guerra: la paura di trovarsi in un campo di battaglia, la nausea della morte, la puzza della carne umana bruciata o decomposta, la vista terribile di brandelli umani e di pozze di sangue, le urla inumane di dolore.

Che si fosse in un aereo, con l’uniforme americana, pronti al lancio, o in una trincea scavata sulle coste sabbiose della Sicilia meridionale in uniforme italiana, in attesa dello sbarco nemico, lo stato d’animo di quei ragazzi era ugualmente di profonda tensione, paura, preoccupazione, consapevolezza di avere alte probabilità di essere uccisi o di subire gravi ferite. Erano uomini ad un passo dal precipizio e lo sapevano.

La paura durante l’assalto

Un paracadutista americano a bordo di un Dakota poco prima del lancio ricordava:

«Aspettavamo in piedi, le ginocchia che tremavano sotto l’enorme carico, il cuore che martellava contro le costole, i nervi pronti a quel salto nell’oscurità, la mente tesa a tenere lontano ogni funesto pensiero.»

Un soldato della divisione «Livorno», durante il sanguinoso contrattacco nella piana di Gela, scrisse sul suo diario:

«Eravamo stretti uno all’altro, uno sull’altro, il viso nella polvere, sommersi dalla polvere, era un martellare implacabile di una quarantina di cannoni navali, e decine di pezzi d’artiglieria campale e di mortai. I colpi ci piovevano vicinissimi tutti attorno, mentre schegge, proiettili, e sassi ci fischiavano sulla nostra testa».

La paura in trincea

Sulle spiagge del ragusano i fanti costieri italiani rimasero attoniti e tremanti di fronte alla possente flotta nemica che apparve sul mare:

«Di colpo parecchi sbiancarono, Savasta, piuttosto agitato, si girava e si rigirava inquieto finché, capito che era rimasto bloccato e non gli restava altro da fare…si carcava il ferreo copricapo per la prima volta. […] Più in là, in posizione ridicola come un quadrupede, Vannino Marotta allungava il collo sopra il muretto e non finiva senza volerlo di dare in volgari escandescenze mescolando il sacro nome del patrono con le più profane sconcezze.»

Collasso nervoso

Per i soldati al fronte esiste un punto di rottura a cui si arriva dopo un particolare carico di stress. Da quel punto non si torna più indietro.

Il s.ten. Alfredo Ferri, classe 1921 di Treviglio (BG) nei giorni dello sbarco in Sicilia difendeva una trincea sul fiume Naro, nei pressi di Agrigento. Era il 16 luglio 1943, l’ultimo giorno della battaglia sul Naro.

«La tensione nervosa dei bersaglieri, che stava ormai cedendo, dava a noi ufficiali gravi preoccupazioni. Uno dei miei bersaglieri, sem¬brava quello più forte e robusto, fu assalito in un pomeriggio da una crisi di nervi, sbavando e urlando la sua volontà di farla finita. Gli altri compagni atterriti mi guardavano atten¬dendo un mio intervento. Feci un atto inconscio, spontaneo e pericoloso. Lo presi per la camicia, sbattendolo contro la parete della trincea, dandogli due forti schiaffi, senza parole. Rimase muto a fissarmi e dopo pochi istanti ritornò in sé, ma non disse più alcuna parola.»

La notte tra il 9 e il 10 luglio 1943 era stato lanciato nel ragusano un battaglione di paracadutisti americani. Il cap. Paul Woolslayer era l’ufficiale alle operazioni del 2/505°. Durante la fase dell’addestramento si era dimostrato il più duro e vigoroso del battaglione, essendo stato sempre il primo a partire e l’ultimo a cedere. Ma dopo il lancio qualcosa si era rotto. L’ufficiale stava subendo una sorta di collasso nervoso che lo aveva spinto a scavarsi una buca e ad infilarsi dentro, respingendo le esortazioni di paracadutisti che chiedevano ordini.

Il terrore dei mostri d’acciaio

Tra Gela e Niscemi, in zona Casa del Priolo, era stato lanciato il 1° btg del 505° rgt paracadutisti americani. In prima linea c’era anche la cp «A» del cap. Edwin M. Sayre, la quale si trovò di fronte il plotone degli spaventosi carri Tigre. Lo sferragliare di quei giganti d’acciaio era terribile e incuteva una paura spesso incontrollabile agli uomini, stringendo lo stomaco, seccando la bocca, provocando il tremore del corpo. Un Tigre si era avvicinato a circa 50 metri e si apprestava a passare sopra le trincee e farle collassare, per stritolare i soldati dentro, quando arrivò il tiro dell’artiglieria americana. Una granata colpì in pieno il grosso panzer che prese fuoco. I membri dell’equipaggio erano bloccati all’interno e morirono lentamente, bruciando vivi. Le urla che uscivano da quel mostro d’acciaio sormontarono anche il rumore degli spari. Sayre avrebbe udito quelle urla per decenni nei suoi peggiori incubi.

Martedì mattina 20 luglio: allarme, Sciacca era attaccata, il nemico era giunto presso la Torre del Barone. Il ten. Carlo Casolari aveva ancora la febbre, ma dovette alzarsi. Si recò al cannone da 105, ben mascherato, piazzato nei pressi del fiume Carboi, che teneva sotto tiro la SS 115 tra Menfi e Sciacca e oltre. I suoi artiglieri avevano paura, di fronte a quella colonna corazzata che sembrava invincibile come un mitico mostro invulnerabile. L’ufficiale fu costretto a minacciarli estraendo la Beretta e puntandola alla tempia dell’artigliere Cossi, il più vicino. Allora, iniziò il tiro. I colpi, uno ogni 30 secondi, giungevano a 13 km di distanza, sui carri americani che avanzano sulla rotabile. Intanto, col fono, il sergente capopezzo del cannone 65/17 chiamò: «Signor tenente, noi ce ne andiamo». La posizione avanzata a 10 km era persa. Gli uomini di Casolari erano soli.

La paura di fronte al plotone d’esecuzione

Il 14 luglio 1943, dopo la resa dell’aeroporto 504 di S. Pietro di Caltagirone, il serg. Horace T. West, considerato dai superiori uno dei sottufficiali più severi del 180° reggimento, ricevette dal comandante di battaglione magg. Denman l’ordine di scortare i prigionieri italo-tedeschi nelle retrovie, consegnandone una decina all’ufficiale del servizio informativo di reggimento, cap. Albert Fricke, per farli interrogare. West, il serg. Brown, un caporale e cinque fanti presero in consegna i prigionieri e si avviarono lungo la strada provinciale in direzione di Acate. Dopo qualche centinaio di metri, quasi dove la rotabile incontra il torrente Ficuzza, il sergente West portò la colonna di prigionieri italiani fuori dalla strada e li fece disporre lungo un fossato. Impugnato il mitra Thompson, cominciò a sparare a raffica, inseguendo i prigionieri che tentavano di scappare, mentre cambiava il caricatore durante la corsa. Uno dei corpi fu trovato a 50 metri: l’unico colpito dal caporale del gruppo West durante la fuga.

In questa strage ci furono tre sopravvissuti: l’aviere Giuseppe Giannola ed i mitraglieri Virginio De Roit e Silvio Quaiotto.

Ecco la testimonianza di Giuseppe Giannola , palermitano, classe 1917:

“Io ero un autista, avevo già fatto servizio nelle basi in Libia. Poi nel ’43 sono stato assegnato all’aeroporto di S. Pietro: una pista costruita tra i boschi tra Caltagirone e Acate. Il 10 luglio il maggiore ci ha detto: «E’ ora di fare il nostro dovere». Sono stati distribuiti i moschetti: i vecchi fucili 91 della grande guerra. Due giorni dopo siamo usciti di pattuglia per dare la caccia ai paracadutisti americani. Io e un mio commilitone ne abbiamo catturati due. Erano colossi con la testa rasata, armati fino ai denti: mitra, pistole, granate, coltelli. Il 13 ci siamo schierati nelle trincee intorno alla pista. Il primo attacco è incominciato il pomeriggio: abbiamo sparato per più di un’ora, un caricatore dietro l’altro. Si sentivano cannonate dovunque. Li abbiamo respinti, ma non potevamo fare di più. Dopo il tramonto, il tenente ci ha radunato al centro del bunker, l’ultimo caposaldo: «Avieri, vi siete battuti bene». Non sapevo che a quelli dell’esercito era stato ordinato di ripiegare nel buio verso Caltagirone. Siamo rimasti lì sotto, ad aspettare: forse volevano che coprissimo la ritirata degli altri. Prima dell’alba i nemici hanno circondato il rifugio. Due bombe sono esplose davanti alle uscite. Ci hanno urlato di venire fuori con le mani alzate e abbiamo obbedito. Siamo stati perquisiti, ci hanno tolto tutto, lasciandoci in mutande o con i pantaloni corti. Hanno buttato via le scarpe per impedirci di correre. Poi ci hanno fatto marciare verso la costa. Poco dopo, una trentina di artiglieri è stata unita al nostro gruppo. I sorveglianti? Erano otto. Non rammento i loro volti, mi sembra che qualcuno parlasse un poco italiano. L’unico che ricordo era quel sergente gigante, con il tatuaggio sul braccio e il mitra che sparava, sparava, sparava”.

I trenta uomini che si unirono al gruppo di avieri non erano in realtà artiglieri, ma probabilmente mitraglieri della 3a cp del 153° btg, formata soprattutto da veneti e bresciani, nella quale era in forza Virgilio De Roit, falegname di S. Maria Camisano (VI). La sua compagnia aveva trascorso un anno e mezzo relativamente tranquillo fino al 7 luglio 1943, quando un bombardamento aereo aveva annunciato l’imminente sbarco nemico. La sera del 13 giunse l’ordine di ritirarsi sul borgo di S. Pietro, per poi ripiegare unitamente alla «Goering» verso Caltagirone. Come già detto, la cosa riuscì al gruppo mobile «H» e agli altri reparti della difesa fissa, ma all’improvviso scoppiò l’inferno attorno al bunker presidiato da quattro tedeschi e da quattro italiani del 122° reggimento, investito da una colonna del 180° rgt americano. Quando era ancora buio, i soldati del 153° si stavano ritirando, ma si trovarono in mezzo all’azione e, dopo uno scontro a fuoco, furono disarmati. Ecco la testimonianza del fante De Roit :

“Ci tolsero portafogli, collanine, ciondoli, orologi. Ci rubarono scarpe e abiti. Ci fecero camminare a piedi nudi fra i rovi, e ci misero in fila per due. Un nero dalla faccia brutta con un parabellum sparò al petto ai primi due, che erano tedeschi. Poi ancora due tedeschi. Quando ho visto cadere anche il caporale Luigi Ghiroldi di Darfo e il mio compaesano Aldo Capitanio …apparve alla mia mente la S. Vergine di Monte Berico e il vivo ricordo dei miei cari… ed ho urlato: «Tosi, scapèmo!». Ebbi l’esatta sensazione dei colpi che foravano i primi petti: il sangue spruzzava. Presi a tutta corsa la fuga seguito da altri due di cui uno del mio paese e mi rifugiai in un fossato coperto di alti arbusti. Le ricerche furono istantanee, scrupolose e per scovarci appiccarono il fuoco a quel fitto nascondiglio. Nel frattempo fu ucciso uno degli altri due (questo era di Ancona). In un giusto momento quando l’agguato era altrove uscimmo noi due soli dal nascondiglio incendiato, rifugiandoci percorrendo un basso vigneto in un altro corso d’acqua immergendoci fino al collo. Le lunghe ore passarono dall’alba al tramonto. Al crepuscolo ci avviammo ad una cascina disabitata. Lì una vecchia coperta ci servì per coprirci un poco il corpo sanguinante. In seguito andai a finire in una grande fattoria dove rimasi fino al giorno del mio ritorno”.

De Roit, il suo compaesano Silvio Quaiotto e l’anconetano Elio Bergamo si erano buttati nel vicino torrente Ficuzza. De Roit e Quaiotto si salvarono superando il corso d’acqua, mentre Bergamo fu falciato dalle raffiche. Intanto il sergente West ed i suoi soldati sparavano sugli altri prigionieri.

Sotto un cumulo di cadaveri c’era l’aviere Giuseppe Giannola, ferito ma vivo e cosciente:

“Io pensavo che tutto fosse finito. Pensavo a Palermo, la mia città dove quella sera ci sarebbero stati i botti: sì, era l’alba del 14 luglio 1943, la festa di S. Rosalia. … Dopo qualche ora (di marcia) ci hanno fatto fare una sosta, stavamo seduti in un campo all’ombra degli ulivi. Quelli che ci sorvegliavano si sono appartati, fumavano e parlavano. Tempo un quarto d’ora e ci siamo alzati di nuovo: ci hanno fatto mettere su tre file. Io ero in mezzo a quella centrale, accanto avevo due commilitoni, palermitani come me che conoscevo sin da quando eravamo bambini. A quel punto gli americani hanno cominciato a sparare. Sarebbe bastato un millimetro più giù per ammazzarmi. Con terrore ho cercato di non respirare. Sapevo che ci doveva essere qualche americano lì intorno, appostato per non lasciare nessuno vivo. Con la faccia a terra credevo di non avere più scampo. Invece nulla. Non so quanto tempo sia passato. Mi dicevo: «Non muoverti». Ma avevo sete. Il polso spezzato e la ferita alla testa bruciavano. Il dolore ha superato la paura. Mi sono mosso carponi, temendo un altro sparo. Ho camminato così fino a una strada sterrata. Vedevo in lontananza delle colonne di camion americani. Non si sentiva più la battaglia. E’ passata un’ambulanza e si è fermata. Si sono resi conto che ero un italiano, ma mi hanno dato da bere e bendato le ferite con attenzione. Poi a gesti mi hanno fatto capire di restare vicino alla strada: «Verranno a prenderti». Io mi sono seduto: avevo solo i pantaloncini, il resto del corpo era impastato di terra e sangue. È arrivata una jeep con tre soldati. Quelli davanti sono scesi: penso mi avessero scambiato per uno di loro. Mi parlavano sorridendo, poi si sono accorti che non capivo. Li ho visti guardarsi in faccia: quello con il fucile ha indicato all’altro la jeep, lo ha mandato via. È rimasto solo, in piedi, di fronte a me. Io ero seduto, lui mi fissava. Poi ha imbracciato la carabina, ha mirato al cuore e ha sparato.”

Giannola fu colpito accanto al cuore. Il proiettile uscì dalla schiena provocando un cratere, ma non lo uccise. Nell’intervista al Corriere della Sera, egli ricordava al giornalista i nomi di alcuni suoi commilitoni caduti quel giorno: Raimondi, Argento, Macaluso, Del Pozzo, Giacalone. Le sue denunce presentate all’Aeronautica Militare dopo la guerra non furono credute.

La paura dei civili

Virgilio Lavore, all’epoca ragazzo diciassettenne di Vittoria, raccontò nel suo romanzo Il tesoro di Cammarana un episodio della ritirata dei tedeschi che facevano brillare una stazione radio che l’autore scambia per radar:

“… ci radunammo in uno slargo della trazzera, dal quale era possibile abbracciare con uno sguardo tutta la pianura, da un lato fino a Comiso e dall’altro fino alla Serra di San Bartolo e a Monte Calvo, che ci precludevano la vista di Vittoria: colonne di fumo si alzavano da ogni dove, ma soprattutto dalla zona del campo d’aviazione.

Un gruppetto di ragazzi, seguiti a cauta distanza da don Titì, ci avviammo, per cercar di attingere notizie, verso una vicina villa, in cui sapevamo acquartierati alcuni reparti di militari italiani e tedeschi. Ma non vi trovammo nessuno. Erano partiti da poco e in tutta fretta: brande in disordine, caffè e latte nelle marmitte, una radio a batteria ancora accesa, un gran numero di oggetti personali in zaini aperti e sparsi dappertutto. Don Titì, che ci aveva seguiti guardingo e sospettoso, resosi conto della situazione, si diede a far man bassa di tutto ciò che gli pareva utile. Finirono in un sacco, trovato in un angolo e trascinato di stanza in stanza, la radio, una pistola, un orologio, scarpe, camicie e cento altre cose, perfino un apparecchio telefonico strappato dalla presa mentre continuava a squillare.”

La razzia di don Titì fu interrotta bruscamente da due militari tedeschi che avevano l’ordine di far esplodere il radar installato nella villa:

“All’improvviso, il rumore di una moto e di una frenata brusca nel cortile. Due soldati tedeschi, armati di mitra e con una cassetta di esplosivo, irruppero gridando parole che ci parvero di minaccia, ma che forse erano solo di avvertimento. In ogni modo sortirono lo stesso effetto: noi ragazzi sfilammo in silenzio di porta in porta, mentre don Titì, cacciato il sacco sotto una branda e svuotando tasche e berretto, riponeva ogni cosa al suo posto, lentamente e con fare che voleva apparire disinvolto. Ai due soldati, che lo spingevano verso l’uscita gridando: «Weg! Weg! Geh zum Teufel!» rispondeva con un tono di dignitoso rimprovero. «Prima di tuttu calati ‘i manu!… e ppuoi, accussì si fa? Vi nni iti a muta a muta, lassati i porti apierti, cu trasi trasi e cu arrobba arrobba!… tuttu stu beniddìu: cannìli, sòrfìri, sicarri e pipi, ‘u stissu rranciu ca ancora fumulìa! Accussì si fa?».

La paura non ci consentiva di ridere di quella scena comica, patetica e paradossale e, una volta fuori, scappammo per la trazzera con tutta la velocità consentitaci dall’emozione e dal tremore delle gambe. Don Titì ci seguì, ci raggiunse e, con uno scatto degno di un centometrista, ci superò, ma improvvisamente lo vedemmo vacillare e crollare al suolo, come falciato dal fragore dell’esplosione del radar fatto saltare dai due tedeschi, che erano tornati nella villa proprio per quella “missione”. Raggiungemmo don Titì e ci accorgemmo che non gli era successo nulla di grave. Mentre ci davamo da fare per aiutarlo ad alzarsi, Sariddu gridò, guardandosi le mani tra le risate generali: «Mamma mia, si cacàu!».

Lo riportammo a casa in preda a una crisi nervosa:

«Ma cuomu, accussì si fa?… i porti apierti! cu arrobba arrobba!… tuttu ssu beniddìu!» andava ripetendo don Titì… reggendosi i calzoni.”

Candido Cannavò, famoso direttore della «Gazzetta dello Sport», nell’estate del 1943 era un ragazzino abitante a Catania, città sottoposta a spaventosi bombardamenti.

«La camionetta ripartì verso il Giardino Bellini. E aveva fatto forse duecento metri quando il perenne ronzio degli aerei che incrociavano il cielo ad alta quota fu lacerato da sibili orrendi. Erano bombe, bombe su di noi. A pochi metri dalla piazza crollò un vecchio palazzo nobiliare. E la radiosa giornata d’estate piombò in una notte improvvisa e lugubre. Accanto a noi, ad attendere un autobus, c’erano un uomo e una donna. Lui indossava una canottiera e mostrava poderosi bicipiti. Una scheggia gliene tranciò uno, aprendogli un mostruoso incavo nel braccio, da dove sgorgava un fiume di sangue che lui, semisvenuto, fissava con occhi terrorizzati.

Sibili ed esplosioni si moltiplicavano. Non si vedeva più nulla. Passò una moto dell’UNPA [Unione Nazionale Protezione Antiaerea] e un anziano volontario ci propose di correre verso il ricovero nel sotterraneo del palazzo vicino. Numerose persone lo seguirono. Poco dopo una bomba centrò in pieno quello che doveva essere un pietoso asilo di salvezza. Strage di povera gente, di civili innocenti. Il vero terrore, tangibile nella sua spietata materialità, te lo dava quel sibilo agghiacciante delle bombe. Erano sulle nostre teste? O cento metri più in là? L’esplosione scioglieva quell’interrogativo al quale eravamo appesi come a una forca per quei pochi secondi che dividevano il preludio sonoro dal fragore: che dilaniava le orecchie, ma diventava liberatorio.

Era in corso – e noi c’eravamo dentro – il più pesante bombardamento che si sia abbattuto su una città siciliana. 8 luglio 1943: a Catania ancora si commemora quella data. La città era quasi vuota, ma i morti furono centinaia. Tanto macello in quindici o sedici minuti: una breve e orrenda eternità.

Mia madre, donna di fantasia, ebbe un’intuizione delle sue, alla quale si deve la nostra salvezza. In piazza Trento c’erano alcune panchine di ferro, arcuate, eleganti. Noi ci distendemmo sotto, a faccia in giù, avvinghiati per tutta la durata di quell’inferno che imperversava intorno, tra ondate di nuova polvere e bagliori di fuoco, tra grida strazianti dei feriti e patetici tentativi di qualche soccorritore terrorizzato. C’era quasi da invidiare i morti: avevano raggiunto la loro pace. A distanza di mezzo secolo, mi chiedo ancora: che senso ha bombardare a tappeto una città? A quale strategia bellica rispondono quei grappoli di bombe sganciate alla cieca?

Quando il bombardamento finì sembrava mezzanotte.»

Incubi di guerra

Il serg. Franklin Spencer, sottufficiale alle telecomunicazioni del 2/505° btg, dopo sessant’anni dai fatti ancora riviveva nei suoi incubi quel tragico periodo della sua giovinezza. Intervistato da Ed Ruggero, riguardo alla guerra disse:

«Non c’è alcun fascino in essa. È solamente qualcosa di terribile in cui vengono coinvolti dei giovani che nulla hanno a che fare con le sue cause. Nessuno vince, tutti perdono. Ogni uomo che glorifica essa è un pazzo.»

18 maggio 2021

Domenico AnforaPubblicità