Ritengo l’Italia fosse già un territorio unito dalla cultura e dalla lingua ufficiale da secoli. Condivido i principi di libertà, di democrazia e di uguaglianza mazziniani, e penso che l’unica legittimità provenga dalla volontà popolare. Considero fratelli allo stesso modo un veneto, un sardo, un napoletano ecc. Questo, però, non mi esime da poter fare un’analisi obiettiva sugli effetti dell’unità sull’Italia meridionale, cioè sugli ex territori del Regno delle Due Sicilie.
Francesco Saverio Nitti, economista, politico e saggista lucano, ritenne che, prima dell’unità, vi erano marginali differenze tra nord e sud (le quali si sarebbero marcate nel periodo postunitario), nonostante il settentrione si trovasse in una posizione di privilegio rispetto al meridione:
È stato messo oramai fuori di ogni dubbio, che la differenza fra il Nord e il Sud, minima intorno al 1860, si sia accentuata rapidamente dopo. Cause finanziarie, ordinamenti politici, doganali, distribuzione delle spese di Stato hanno largamente contribuito a determinare e ad accentuare questa differenza di condizioni. Non va però in niuna guisa omesso che l’Italia settentrionale è in condizioni naturali di sviluppo assai superiori al Mezzogiorno: per mancanza o poca diffusione di malaria, per estensione di terre coltivabili, per distribuzione di acque, per situazione geografica, per essere grande via di traffico.
Nitti riteneva che nelle Due Sicilie «vi era uno stato di grossolana prosperità, che rendeva la vita del popolo meno tormentosa di ora».
Il Regno delle Due Sicilie non era un paradiso, né di libertà né di benessere, ma aveva un’antica tradizione statale e una struttura industriale ancora allo stato embrionale ma in crescita, con realtà molto importanti. Esistevano oltre 100 stabilimenti metalmeccanici di cui 15 con oltre 100 addetti e 6 con oltre 500 addetti. Pietrarsa era la più grande industria metalmeccanica in Italia. La siderurgia e l’industria metalmeccanica contavano al Meridione 20 000 addetti, sui 60 000 di tutta la penisola. Il complesso siderurgico di Mongiana, in Calabria, fondato nel 1768, era il primo produttore italiano di materia prima e semilavorati per l’industria metalmeccanica con 1500 addetti che salivano a 2000 con l’indotto.
La flotta mercantile era consistente, con piccole ma buone imbarcazioni per il cabotaggio e la pesca. Esistevano una quarantina di cantieri navali e 25 compagnie di trasporto marittimo. Il cantiere di Castellammare di Stabia, con 1800 addetti, era uno dei più importanti del Mediterraneo.
L’industria tessile era fiorente, in particolare nel salernitano; i più importanti stabilimenti avevano sede quattro in Campania ed uno in Sicilia. La produzione tessile aveva in Italia le due punte più avanzate in Lombardia ed in Campania; la produzione lombarda era di 16 milioni di metri di tessuto mentre quella campana era di 13 milioni di metri.
Oltre 200 cartiere, fra cui a Fibreno la più grande d’Italia con 500 addetti. L’industria estrattiva era concentrata in Sicilia, con le miniere di zolfo. Nei dintorni di Napoli vi erano alcune industrie chimiche per la produzione di amido, cloruro di calce, acidi nitrico, acido muriatico, acido solforico e colori chimici. L’industria conciaria era particolarmente sviluppata, in particolare nel napoletano, ove le fabbriche di guanti giunsero a produrne 755 000 paia (1855), seconda produzione europea dopo la Gran Bretagna.
Dopo l’unità, il governo di Torino adottò tariffe di libero scambio, le più basse d’Europa insieme ad Inghilterra e Belgio, che da una parte ebbe effetto positivo sugli sbocchi commerciali dei prodotti agricoli, ma d’altra parte fu rovinosa per la nascente industria, che ancora non poteva essere in grado di competere ad armi pari con le industrie di paesi in cui la rivoluzione industriale era già in fase più avanzata e di fatto favorì soltanto l’importazione di prodotti industriali francesi ed inglesi. Il Meridione fu ulteriormente colpito dallo smantellamento delle strutture di governo, in particolare nella capitale. L’industria meridionale, esposta ad un nuovo ordinamento cui essa non era preparata, ebbe a soffrire forse maggiormente di quella settentrionale, ma non per questo scomparve, anzi vi furono tentativi di reazione, fusioni e ristrutturazioni e persino nuove iniziative. Nei trent’anni successivi all’unità, tuttavia, il danno causato da una politica liberistica per la quale il sistema italiano non era ancora pronto e la completa mancanza di strategia industriale da parte dei governi nazionali causarono danni irreversibili. L’industria meridionale non riuscì a dar luogo al quel processo di espansione e crescita continua che caratterizza il passaggio dalla fase preindustriale alla industrializzazione vera e propria, ed iniziò una fase di declino, mentre gli investimenti si spostavano di nuovo verso l’agricoltura.
Corrado Arezzo de Spuches, barone di Donnafugata, nato a Ragusa nel 1824, aveva una fabbrica tessile che fu costretto a chiudere per l’eccessivo carico fiscale dopo l’unità d’Italia. Era un fervente antiborbonico ed aveva preso parte alla rivoluzione del 1848, quando era stato eletto deputato al parlamento siciliano. Aderì alla rivoluzione garibaldina del 1860 e fu nominato prefetto della provincia di Noto. Nel 1861 fu eletto deputato al Parlamento di Torino per il collegio di Vizzini. Uomo di cultura, fu commissario governativo all’esposizione universale di Dublino nel 1865 e poi nominato senatore. Dopo il fallimento della sua impresa e il licenziamento degli operai, ammise che si era innamorato della donna sbagliata: l’Italia unita.
La distruzione dell’apparato industriale, soprattutto statale, e dieci anni di guerra civile spacciata come lotta al brigantaggio fecero esplodere la piaga dell’emigrazione, la quale era un fenomeno che aveva riguardato esclusivamente il Nord Italia prima dell’unità. Dopo l’unità, mentre il Piemonte riuscì ad arrestare la sua tradizionale emorragia migratoria grazie alle nuove politiche economiche e finanziarie dell’Italia unita, per colpa di quelle stesse politiche concepite ed attuate dall’entourage savoiardo tutte le regioni meridionali dell’ex Regno delle Due Sicilie subirono, invece, un drastico peggioramento delle loro condizioni di vita, cosa che portò a una massiccia emigrazione, soprattutto tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento.
Raffaele De Cesare, politico e giornalista pugliese, famoso meridionalista, questo scrisse sul peggioramento delle condizioni della Sicilia a seguito dell’unità. Le sue fonti, quale deputato e poi senatore del Regno d’Italia, furono i bilanci conservati nell’archivio del Parlamento.
La vita nelle città era a un buon mercato inverosimile, e scarsi dappertutto i bisogni morali, anzi limitati alle classi più ricche. Nessuna legislazione fiscale inceppava il movimento della proprietà, e le fittanze a lunga scadenza, le enfiteusi temporanee e perpetue, le vendite, le espropriazioni e le stesse donazioni erano favorite da un sistema legislativo, che non le opprimeva, benché una gran parte delle proprietà immobiliare fosse gravata di vincoli enfiteutici . Allora la situazione pareva peggiore della presente per l’inalienabilità dell’immenso patrimonio delle chiese, delle corporazioni religiose e di altri corpi morali: dico pareva, perché questa grande manomorta rispondeva a fini sociali e morali che la rivoluzione, quando divenne governo, distrusse senza discernimento. Garibaldi e i suoi prodittatori la rispettarono, perché, tranne che richiamare in vigore la legge del 1848 contro i gesuiti e i liguorini, non fecero di più. Bisognava distinguere molto e procedere per gradi, ma invece si confuse tutto, si soppresse tutto, ignorandosi che la manomorta in Sicilia era diversa da tutte le altre. Gli zolfi, il sommacco, i vini, gli olii, le paste, gli agrumi erano i prodotti che l’Isola esportava, e il Governo, come si è veduto, ne favoriva l’esportazione, prendendo alla sua volta dai contribuenti siciliani il meno possibile. Essi si lagnavano a torto per questa parte. La Sicilia, che paga oggi 120 milioni d’imposte, ne pagava allora poco meno di ventidue, e se mancava di ferrovie e di strade, di telegrafi elettrici e di cimiteri, aveva il porto franco di Messina, l’esenzione dalla leva e dalla gabella del sale e la libera coltivazione del tabacco. Il Governo si studiava di garantire ai poveri i generi di prima necessità a buon mercato, e la sicurezza alle classi benestanti.
Il grimaldello che scardinò il Regno delle Due Sicilie fu Giuseppe Garibaldi, repubblicano, generale dalle eccezionali capacità sul campo di battaglia e padrone delle tattiche di guerriglia, con un carisma che attirava come una calamita migliaia di giovani che lo seguivano nelle sue imprese. Cosa pensava Garibaldi della sua impresa più importante, la spedizione dei Mille, con la quale conquistò il Regno delle Due Sicilie e lo unì al nord Italia? In una lettera scritta il 7 luglio 1868 a donna Adelaide Bono Cairoli, madre di cinque patrioti di cui quattro caduti sul campo, così si espresse:
Lunga è la storia delle nefandezze perpetrate dai servi d’una mascherata tirannide – e longanima troppo – la stupida pazienza di chi li tollerava. E voi donna di alti sensi e d’intelligenza squisita, volgete per un momento il vostro pensiero alle popolazioni liberate dai vostri martiri e dai loro eroici compagni. Chiedete ai vostri cari superstiti delle benedizioni con cui quegli infelici salutavano ed accoglievano i loro liberatori! Ebbene essi maledicono oggi a coloro che li sottrassero dal giogo d’un despotismo che almeno non li condannava all’inedia, per rigettarli sotto un dispotismo più schifoso assai, più degradante, e che li spinge a morir di fame. Io ho la coscienza di non aver fatto male, nonostante non rifarei oggi la via dell’Italia Meridionale, temendo d’esservi preso a sassate da popoli che mi tengono complice della disprezzabile genia che disgraziatamente regge l’Italia e che seminò l’odio e lo squallore ove noi avevamo gettato le fondamenta d’un avvenire italiano, sognato dai buoni di tutte le generazioni e miracolosamente iniziato.
A conferma di questo pensiero, così scrisse nel suo libro I Mille a pag. 173:
Felice! poteva chiamarsi, giacché con tutti i vizi di cui era incancrenito il suo governo, occupavasi almeno che non morissero di fame i sudditi, occupazione che disturba poco la digestione di coteste cime che governano l’Italia. Giù il cappello però, esse, le cime, hanno fatto l’Italia, ed avranno fra giorni una statua in Campidoglio, non so di che roba.
Per concludere, ecco il pensiero di Luigi Settembrini, patriota, scrittore e docente napoletano condannato a morte sotto re Ferdinando II di Borbone e rimasto dieci anni nell’ergastolo per aver dato mano alla setta dell’Unità italiana. Era tanto lo spasimo per le distruzioni di istituti e costumi napoletani e per l’uniformità promossa dal governo, che una volta, ai suoi studenti che si dolevano di certi regolamenti, rispose crucciato: – Colpa di Ferdinando II! – Professore, come c’entra Ferdinando II? – Se avesse fatto impiccare me e gli altri come me, non si sarebbe venuto a questo! –
17 marzo 2024
Domenico Anfora
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