Il 17 marzo 1861 con legge n. 4671 del Regno di Sardegna, Vittorio Emanuele II proclamava di assumere per sé e per i suoi successori la corona del Regno d’Italia.

Cosa significò per il sud Italia, ex Regno delle Due Sicilie, questa annessione decisa dal parlamento di Torino?

Intanto, significò una sanguinosa guerra, un regime d’occupazione, dieci anni di guerriglia e di conseguente repressione, con durissime rappresaglie, fucilazioni, arresti, deportazioni al nord e nelle isole. Mentre a nord del Sangro vigeva lo Statuto Albertino, al sud le comunità sottostavano alla Legge Pica e alle corti marziali. La vita sociale ed economica di quei territori fu sospesa per anni, portando una miseria senza precedenti.

Nel 1860 il Regno delle Due Sicilie era in una fase iniziale di industrializzazione, ma con molti esempi lodevoli e produttivi, come il polo siderurgico di Mongiana, la fabbrica metalmeccanica di Pietrarsa, i cantieri navali di Castellammare, le varie aziende tessili e le numerose cartiere.  Solo una parte del Regno borbonico era inserita in un sistema di scambi commerciali sviluppati, in particolare le zone costiere, servite da una flotta mercantile di tutto rispetto che faceva rotta anche verso le Americhe e la Russia, con le quali esistevano da anni positivi accordi commerciali. I territori interni e più impervi del Regno e nelle più isolate zone rurali esisteva ancora un’economia fondata sulla produzione per l’autoconsumo. I contadini e i pastori vendevano nei mercati solo il surplus della loro produzione familiare, oltre ai prodotti della filatura e della tessitura. Quel sistema di mercato chiuso, sebbene povero, riusciva a soddisfare quella società contadina dai costumi arcaici e dalla vita parsimoniosa. Anche le rendite ai padroni delle terre erano generalmente pagate con parte dei prodotti agrari, in un mercato dove la circolazione monetaria era limitata, ma di pregio, senza banconote, ma in monete d’argento e d’oro.

Questo mondo povero, ma autosufficiente, fu spazzato via dall’urto violento piemontese, capitalistico e liberale, che puntava a un mercato nazionale e aperto, qualunque fossero i costi umani e sociali. Questo sistema importato da Torino e sostenuto da una parte dell’aristocrazia meridionale e dall’avanzante borghesia terriera impose le proprie regole a un mondo che non era preparato a sopportarle. Il capitale penetrò nelle campagne e la vecchia rendita precapitalistica si trasformò in profitto del capitale. Così, anche il proprietario terriero, che nel passato, disinteressato, si era trasferito in città, tornò a interessarsi delle campagne, chiedendo ai fittavoli e ai mezzadri non i prodotti, ma il denaro, in considerazione del fatto che doveva pagare un fisco moltiplicato dalle nuove leggi imposte da Torino.

Il nuovo Stato unitario pensò anche a costruire delle ferrovie che da nord giungevano e sud, per treni che trasportavano i prodotti delle industrie settentrionali, trovando dei mercati ormai senza concorrenti.

Le Due Sicilie, da territorio indipendente ed economicamente autonomo, si trasformò in una colonia, da sfruttare come mercato e come manodopera a basso costo. Fu un disastro sociale ed economico.

Corrado Arezzo de Spuches, barone di Donnafugata, nato a Ragusa nel 1824, aveva una fabbrica tessile che fu costretto a chiudere per l’eccessivo carico fiscale dopo l’unità d’Italia. Era un fervente antiborbonico ed aveva preso parte alla rivoluzione del 1848, quando era stato eletto deputato al parlamento siciliano. Aderì alla rivoluzione garibaldina del 1860 e fu nominato prefetto della provincia di Noto. Nel 1861 fu eletto deputato al Parlamento di Torino per il collegio di Vizzini. Uomo di cultura, fu commissario governativo all’esposizione universale di Dublino nel 1865 e poi nominato senatore. Dopo il fallimento della sua impresa e il licenziamento degli operai, ammise che si era innamorato della donna sbagliata: l’Italia unita.

Tre decenni dopo quei territori erano ridotti a una realtà sterile e sottosviluppata, gestita da una classe terriera che si contentava delle briciole che cadevano dal nord pur di mantenere il potere. La fame si trasformò in rivolte (vedi quella del 1893-94 dei fasci siciliani dei lavoratori), in banditismo e in un’emigrazione biblica. Per le popolazioni meridionali lo Stato unitario non era visto come civiltà, come garanzia di diritti civili e sociali, come fonte di giustizia, ma come garante dei soprusi. Lo Stato aveva il volto del barone, del gabellotto, del giudice, del carabiniere, dell’agente del fisco. Ancora oggi sono evidenti le ferite aperte e purulente di quella fase storica.

Domenico Anfora

 

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